365
1819
Nasce a Darley, nel Derbyshire, Edward Milner, architetto inglese del paesaggio.
Il Trattato di Singapore è firmato dall’inglese Thomas Stamford Raffles, il Sultano Hussein e il Temenggong Abdul Rahman. Il trattato autorizza la Compagnia britannica delle Indie orientali a stabilire un avamposto commerciale a Singapore, in cambio di un corrispettivo annuo di 5 mila dollari spagnoli per il Sultano e 3 mila per il Temenggong. La Union Jack viene issata e segna la nascita della moderna Singapore.
Nasce a Londra John Ruskin, scrittore, pittore e poeta britannico.
Il rappresentante abolizionista democratico James Tallmadge fa un acceso e accorato discorso alla Camera a favore dell’abolizione della schiavitù e propone, come condizione della statualità del Missouri, che nessun altro schiavo possa essere importato nello stato e che tutti i bambini nati dopo l’ammissione del Missouri nell’Unione debbano nascere liberi. L’Emendamento Tallmadge passa alla Camera ma viene bocciato al Senato.
16
feb
Il Capitano William Smith scopre le Isole Shetland Meridionali, dando il nome al Capo Smith.
Nasce James Russell Lowell, poeta e saggista americano.
Viene emanato An Act to protect the commerce of the United States and punish the crime of piracy contro la pirateria, che verrà emendato nel 1820 per dichiarare pirateria anche la partecipazione alla tratta degli schiavi. Il solo a essere punito con la pena capitale per pirateria negli Stati Uniti fu il mercante di schiavi Nathaniel Gordon nel 1862 a New York.
Il Congresso prevede una ricompensa di 50$ per chi denunci l’importazione illegale di schiavi negli Stati Uniti e viene istituita la African Slave Trade Patrol per fermare la tratta degli schiavi in Africa. Grazie alle proteste e le richieste del movimento abolizionista, una squadra di navi statunitensi da guerra viene mandata a caccia di mercanti di schiavi.
Nasce a Varsavia Narcyza Żmichowska, poeta e scrittrice polacca nota anche come Gabryella e considerata una precursora del femminismo in Polonia.
A Mannheim, il drammaturgo conservatore August von Kotzebue viene assassinato da Carl Ludwig Sand, uno studente nazionalista, il quale si presenta a casa sua e, dopo un breve dialogo con lo scrittore, lo pugnala più volte sul petto pronunciando la frase “Tu, traditore della patria!”.
Viene pubblicato Il vampiro, un racconto breve scritto da John Polidori.
Nasce a San Vandemiano Regina Dal Cin, osteopata italiana specializzata nella pratica della ricomposizione femorale.
La nave negriera francese Le Rôdeur salpa da Bonny nell’Africa occidentale per Guadalupa nelle Indie occidentali. Nel corso del viaggio transatlantico molti a bordo diventano ciechi e più di trenta schiavi vengono gettati in mare.
6
apr
Percy Shelley finisce di scrivere il Prometeo liberato.
Ha luogo una delle più significative eruzioni del Vesuvio durante l’anno, il Vulcano è attivo per tutto il 1819 e 1820.
Muore Kamehameha I, il fondatore e primo re del Regno di Hawaii.
Nasce a Mumbai Seth Apcar, il primo sceriffo armeno di Calcutta. In questo anno la famiglia Apcar fonda la Apcar and Company, ditta di import ed export che commercia soprattutto in oppio tra l’India, Hong Kong e il Fiume delle Perle.
Muore a Lima Micaela Villegas, detta la La Perricholi, un’attrice, cantante e ballerina peruviana, alla cui vita sono ispirati la commedia di Prosper Mérimée Le Carrosse du Saint-Sacrement (1830) e il film di Jean Renoir La carrozza d’oro (1952).
La SS Savannah è la prima nave a vapore ad attraversare l’Oceano Atlantico.
Kamehameha II, nato come Kalaninui kua Liholiho i ke kapu ʻIolani, diventa il secondo re delle Hawaii e nello stesso anno sfida la tradizione di far mangiare uomini e donne separati durante un banchetto, il che porta all’abolizione del sistema “kapu” (taboo).
Nasce la Regina Vittoria di Inghilterra.
Nasce a West Hills Walt Whitman, poeta americano.
A Roma muore di malaria William il figlio di Percy e Mary Shelley, gettando entrambi in una profonda depressione.
Nasce a Ornans Gustave Courbet, pittore francese.
Un terremoto uccide almeno 1500 persone dell’attuale Stato del Gujarat vicino al Mar Arabico.
Muore María Antonia Santos Plata, una contadina neogranadina, leader ribelle ed eroina. Ha galvanizzato, organizzato e guidato i guerriglieri ribelli nella provincia di El Socorro contro le truppe spagnole durante la Reconquista della Nuova Granada. Viene catturata, processata e giudicata colpevole di lesa maestà e alto tradimento per poi essere condannata e giustiziata con un plotone di esecuzione. A lei verrà intitolata una brigata dell’esercito colombiano.
L’astronomo tedesco Johann Georg Tralles scopre quella che verrà nominata la Grande Cometa del 1819.
Muore a Parigi Sophie Blanchard, la prima donna aeronauta professionale.
Lord Byron pubblica i primi due canti del Don Giovanni.
Nasce a Zurigo Gottfried Keller, scrittore e poeta svizzero.
Durante una riunione di gabinetto, convocata dal primo ministro britannico Lord Liverpool, si discute un rapporto investigativo su una relazione adultera che coinvolge la moglie di George, principe di Galles e reggente a causa della malattia del padre. Ma le prove d’adulterio non sono sufficienti per procedere.
Nasce a New York Herman Melville, scrittore americano.
I tumulti Hep-Hep, pogrom contro gli ebrei Ashkenazi nella Confederazione Germanica, cominciano a Würzburg in Baviera e continuano fino ad ottobre causando la morte di molti ebrei.
Mary Shelley scrive il romanzo Matilda. Mary invia il manoscritto al padre William Godwin per sottoporlo a revisione prima di un’eventuale pubblicazione. Il padre definisce il romanzo “disgustoso e detestabile”, poiché parla di un amore incestuoso tra padre e figlia, e si rifiuta di restituire il manoscritto Mary. Il romanzo viene pubblicato per la prima volta nel 1959 da Elizabeth Nitchie dopo essere stato rinvenuto fra vecchie carte.
4
Ago
La battaglia di Boyacá vede la vittoria di Simón Bolívar contro l’armata reale spagnola in Colombia. La Colombia acquista la sua indipendenza definitiva dalla Spagna.
Massacro di Peterloo, a St. Peter's Field, Manchester (Regno Unito), un comizio pacifico, convocato per chiedere al parlamento britannico una riforma elettorale, viene sedato nel sangue dall’esercito, lasciando così almeno 11 morti e più di 400 feriti tra i manifestanti.
Nasce a Parigi Léon Foucault, fisico francese conosciuto per l’interpretazione del movimento di rotazione del piano di oscillazione di un pendolo, noto come Pendolo di Foucault.
Muore a Parigi Abbé Faria, era un monaco cattolico e pioniere negli studi scientifici sull’ipnotismo, seguiti a quelli a Franz Mesmer. A differenza di Mesmer, che pensava l’ipnotismo fosse mediato dal “magnetismo animale”, Faria capì che funzionava attraverso il semplice potere della suggestione. La sua tomba rimane ignota e non segnata, da qualche parte a Montmartre.
Secondo un conteggio gli schiavi sono più del 30% dei circa 128.000 abitanti dell’Alabama.
John Keats scrive a Fanny Brawne in una lettera: “Il mio amore mi ha reso egoista. Non posso esistere senza di te”.
Nasce Mírzá `Alí Muḥammad, noto anche con il soprannome di Báb, profeta persiano e fondatore del Bábismo, e una delle figure centrali della religione Bahá'í.
Nasce a Modena Nicola Zanichelli, fondatore dell’omonima casa editrice.
Nasce a Firenze Percy Florence, figlio di Mary e Percy Shelley. Il neonato risolleva la madre dopo le numerose perdite dei figli subite negli anni precedenti.
Il Museo del Prado apre a Madrid. All’inizio ospita 311 dipinti di una certa rilevanza; lo stesso giorno Giacomo Leopardi scrive una lettera all’amico Pietro Giordani lamentando il suo dolore: “Sono così stordito dal niente che mi circonda, che non so come abbia forza di prender la penna”. In questo anno Leopardi viene afflitto da una malattia agli occhi, prova a fuggire dai genitori e da Recanati e compone la celebre poesia L’infinito.
19
nov
Nasce ad Arbury Mary Ann Evans, nota con lo pseudonimo maschile di George Eliot, scrittrice britannica.
22
nov
In Inghilterra entrano in vigore le leggi denominate Six Acts, volte a reprimere manifestazioni e pubblicazioni radicali a seguito del Massacro di Peterloo.
Un corpo di spedizione britannico raggiunge Ras Al Khaimah nel Golfo Persico, in preparazione al bombardamento e all’invasione della città, che porterà alla firma del Trattato marittimo generale del 1820, tra gli inglesi e quelli che sarebbero diventati noti come gli Stati della Tregua.
Nasce a Meldola Felice Orsini, scrittore e rivoluzionario italiano noto per aver causato una strage, nel tentativo di assassinare l’imperatore francese Napoleone III.
Viene formalmente costituita la Repubblica della Gran Colombia, con Simón Bolívar come primo presidente.
Ultimazione della costruzione del nuovo osservatorio astronomico di Napoli. L’astronomo Carlo Brioschi compie la prima osservazione stellare misurando la posizione di ⍺ Cassiopeiae.
16
feb
I miei genitori avevano una pallida carnagione olivastra e venivano definiti mulatti. Vivevano insieme in una casa confortevole e, nonostante fossimo tutti schiavi, ero così protetta che mai avrei immaginato di essere una merce, affidata a loro affinché mi tenessero al sicuro, con il rischio di esservi sottratta in ogni momento. Avevo un fratello, William, due anni più piccolo di me – un bambino allegro e affettuoso. Potevo anche contare sul grande tesoro che era la mia nonna materna, una donna eccezionale sotto molti aspetti. Era la figlia del proprietario di una piantagione nella Carolina del Sud che, alla sua morte, aveva liberato sua madre e i suoi tre figli, lasciandole abbastanza soldi per andare a St. Augustine, doveva vivevano alcuni parenti. Accadde durante la Guerra d'Indipendenza Americana; vennero catturati durante il viaggio, riportati indietro e venduti ad acquirenti diversi. Questa era la storia che mia nonna mi raccontava, ma non ricordo tutti i particolari.
Era una bambina quando venne catturata e venduta al custode di un grande albergo. L'ho spesso sentita parlare di quanto difficile fosse stata la sua infanzia. Ma crescendo aveva mostrato così tanta intelligenza, ed era stata così leale che il suo padrone e la sua padrona non avevano potuto fare a meno di riconoscere che era nel loro stesso interesse prendersi cura di una proprietà così preziosa. Divenne una presenza indispensabile in famiglia, si occupava di tutto: faceva da cuoca, da balia e da sarta. Lodi particolari erano riservate alla sua cucina e i suoi salatini divennero così famosi nel vicinato che molte persone desideravano procurarseli. A seguito di numerose richieste del genere, domandò alla padrona il permesso di cucinare i salatini durante la notte – una volta finito il resto delle faccende – che ottenne a patto di usarne i proventi per occuparsi del vestiario suo e dei bambini. A queste condizioni, con i suoi due figli più grandi ad assisterla, e dopo aver lavorato duramente tutto il giorno per la sua padrona, cominciarono le infornate di mezzanotte. Gli affari andavano bene, e ogni anno riusciva a mettere da parte un gruzzolo che sarebbe servito a riscattare i suoi figli.
Il suo padrone morì e la proprietà venne divisa fra i suoi eredi. La vedova ereditò l'albergo, che continuò ad amministrare. Mia nonna rimase a servizio come schiava, ma i suoi figli vennero assegnati ai figli del padrone. Visto che ne aveva cinque, Benjamin, il più giovane, venne venduto, così che ogni erede potesse ricevere la stessa somma di dollari e centesimi. C'era così poca differenza d'età fra noi che sembrava più mio fratello che mio zio. Era un bambino bellissimo, dalla carnagione chiara – sembrava quasi un bianco – ereditata dagli avi anglosassoni di mia nonna. Nonostante avesse solo dieci anni, avevano pagato settecento dollari per lui. La sua vendita fu un colpo terribile per mia nonna, ma era di natura speranzosa e tornò al lavoro con rinnovata energia, convinta che col tempo sarebbe riuscita a riscattare alcuni dei suoi figli. Era riuscita a mettere da parte trecento dollari, ma un giorno la sua padrona la supplicò di prestarglieli con la promessa di restituirli presto.
Probabilmente la lettrice è a conoscenza del fatto che nessuna promessa, a voce o in calce, con una persona schiavizzata è legalmente vincolate, poiché secondo le leggi del Sud una schiava, essendo essa stessa proprietà, non può possedere alcunché. Quando mia madre prestò i suoi risparmi alla padrona confidò unicamente nel suo onore. L'onore di una schiavista nei confronti di una schiava! È a questa nonna così buona che dovevo le mie molte comodità. Io e mio fratello Willie ricevevamo spesso in dono i salatini, le torte e marmellate che preparava per venderle; e una volta cresciuti fu grazie a lei che godemmo di molti e importanti vantaggi.
Queste furono le inusuali e fortunate circostanze della mia prima infanzia.
Quando avevo sei anni mia madre morì, e fu allora che grazie alle chiacchiere che mi circondavano scoprii per la prima volta di essere una schiava. La padrona di mia madre era la figlia della padrona di mia nonna. Era la sorella di latte di mia madre, perché mia nonna le aveva allattate entrambe al seno. In realtà mia madre era stata svezzata a tre mesi, così che la figlia della padrona potesse avere latte a sufficienza. Avevano giocato insieme da bambine e quando erano diventate donne mia madre era stata la serva più leale di quella bianca sorella acquisita. Sul letto di morte la padrona le aveva promesso che ai suoi figli non sarebbe mancato nulla, e mantenne la parola. Parlavano tutti con gentilezza di mia madre, che era stata una schiava solo di nome, ma che aveva un carattere nobile e femminile. Soffrii per lei, e la mia giovane mente si arrovellava al pensiero di chi si sarebbe occupato di me e il mio fratellino. Mi venne comunicato che ora la mia casa era quella della mia padrona, e fu una casa felice. Non mi venivano richieste mansioni faticose o sgradevoli. La mia padrona era così gentile con me che ero sempre contenta di fare ciò che mi chiedeva, ed ero orgogliosa di lavorare per lei quanto mi permetteva la mia giovane età. Le sedevo accanto per ore a cucire con diligenza, il cuore scevro di preoccupazioni come quello di ogni bambina bianca nata libera. Quando pensava fossi stanca mi mandava fuori a correre e saltare, e io mi avventuravo a raccogliere bacche o fiori per decorare la sua stanza. Erano giorni felici – troppo felici per durare. La giovane schiava non pensa all'indomani, ma ecco che arrivò la sventura che attende ogni essere umano nato in schiavitù. Non avevo ancora dodici anni quando la mia padrona si ammalò e morì.
Quanto intensamente ho pregato che sopravvivesse, mentre osservavo le sue guance farsi pallide e lo sguardo vitreo! Le volevo bene perché era stata quasi una madre per me. Le mie preghiere non furono esaudite. Morì e la seppellirono nel piccolo cortile della chiesa dove, giorno dopo giorno, le mie lacrime cadevano sulla sua tomba.
Mi mandarono a trascorrere una settimana da mia nonna. Allora ero abbastanza grande da pensare al mio futuro e mi chiedevo, ancora e ancora, cosa ne avrebbero fatto di me. Ero sicura che non avrei mai trovato una padrone gentile quanto quella che se ne era andata. Aveva promesso a mia madre morente che ai suoi figli non sarebbe mai mancato nulla, e quando me ne ricordai – e riportai alla mente tutte le sue dimostrazioni di affetto nei miei confronti – non riuscii a trattenermi dallo sperare che mi avrebbe liberata. I miei amici erano quasi certi che sarebbe accaduto. Pensavano lo avrebbe fatto di sicuro, per via dell'affetto di mia madre, e del suo leale servizio. Ma, ahimè! Lo sappiamo tutti che la memoria di una schiava fedele non serve a salvare i suoi figli dal podio del banditore.
Dopo un breve periodo di apprensione, lessero il testamento della mia padrona, così scoprimmo che mi aveva lasciata in eredità alla figlia di sua sorella, una bambina di cinque anni. Ecco le nostre speranze, svanite.
La mia padrona mi aveva insegnato i precetti della Parola di Dio: “Amerai il prossimo tuo come te stesso”, “Tutte le cose dunque che voi volete che gli uomini vi facciano, fatele anche voi a loro”. Ma io ero la sua schiava, e immagino che non mi considerasse il suo prossimo.
Darei qualsiasi cosa per eradicare dalla mia memoria quel torto tremendo. Da piccola volevo bene alla mia padrona, e guardando indietro ai giorni felici che ho trascorso con lei mi sforzo di pensare con meno amarezza a questo atto di ingiustizia. Quando ero con lei mi ha insegnato a leggere e compitare, e Dio la benedica per questo privilegio che così raramente viene concesso a una schiava.
Possedeva pochi schiavi e alla sua morte vennero ridistribuiti fra i suoi parenti. Cinque di loro erano i figli di mia nonna, e avevano succhiato lo stesso latte materno che aveva nutrito i figli della sua stessa madre. Malgrado il lungo e fedele servizio di mia nonna ai suoi padroni, nemmeno uno dei suoi figli sfuggì all'asta. Agli occhi dei loro padroni queste macchine animate dal respiro di Dio non valgono più del cotone che piantano o i cavalli di cui si occupano.
Traduzione di Amanda Rosso
6
apr
Ogni giorno la nostra casa è sempre più lontana. E più è lontana, più le nostre anime faranno fatica a trovare la strada per tornarci. Fra poco saremo morti. Non conosco l’uomo incatenato con me, ma appena ci porteranno di sopra e sentiremo il vento soffiarci addosso ci stringeremo la mano e correremo fino alla fine della nave e salteremo giù. Non possiamo vedere, ma ci guiderà il rumore delle onde. Spero solo che la mia anima non sia diventata cieca come me. Come tutti su questa nave.
Mi martellano di domande. Essere l’unico a vederci ancora è una condanna.
Dapprima credemmo fosse una cosa isolata. Chi portava nella stiva il rancio disse che alcuni schiavi gridavano graffiandosi la faccia. Scese il chirurgo a visitarli e disse che erano diventati ciechi. Il giorno dopo erano cinque, quello ancora dopo dieci. Il medico ordinò che fossero portati sul ponte, fuori dall’aria insalubre della stiva.
Allora li liberammo dai ceppi e li portammo sul ponte. Rimasero un po’ fermi, tremanti e piegati su sé stessi. Avevano gli occhi gonfi, ributtanti di pus. Due di loro, dopo un po’, si voltarono e presero a correre. Arrivati al parapetto si gettarono, abbracciati, in mare. Il capitano, sbraitando, ordinò che il resto fosse riportato sotto coperta.
Anche i bianchi sono ciechi. La malattia non ha fatto differenza. Loro, però, possono stare fuori, respirare, camminare. Hanno luce, anche se non possono vederla. Noi siamo incatenati quaggiù, ammassati corpo su corpo mentre il demone ci divora a uno a uno.
Il 20 maggio 2020 Bilal (da nessuna parte è stato possibile trovare il suo nome completo), un giovane tunisino, è morto buttandosi dal traghetto Moby Zazà, dove era costretto a bordo insieme ad altre 121 persone, nel tentativo di raggiungere a nuoto le coste siciliane. Il mese precedente il Governo italiano, con un decreto della Protezione Civile, aveva disposto che le persone che arrivavano in Italia via mare fossero obbligate a passare il periodo di quarantena a bordo di navi private.
Nel corso dei mesi a seguire sono state 5 le navi che si sono alternate nel contenimento di centinaia di persone giunte dalle coste dell’Africa, dove persone positive e negative venivano costrette negli stessi spazi. Si stima che il noleggio di ogni imbarcazione è costato all’Italia tra i 900mila euro e i 1,2 milioni di euro.
Dopo poco tempo, queste prigioni galleggianti modificano in parte la loro funzione. Infatti, pur continuano ad “ospitare” persone appena sbarcate al loro interno vengono portate anche persone che si trovano già in Italia, nei diversi centri sparsi per il paese. Si comincia con il centro d’accoglienza di Lampedusa, dove, nell’agosto 2020 si prelevano centinaia di persone (anche in questo caso senza alcun distinguo tra positivi e negativi) che vengono poi deportate sulla nave Rhapsody. Direttamente sulle navi quarantena si avviano anche i procedimenti di identificazione, per poi procedere con le espulsioni verso il paese d’origine. Nell’ottobre 2020 la Rhapsody arriva al porto di Barida cui le persone vengono poi condotte all’aeroporto per essere rimpatriate in Tunisia. Nei mesi a seguire sono continuate le deportazioni nelle navi quarantena di persone positive al Covid che venivano prelevate (qualcuno racconta di essere stato svegliato e caricato su un pullman nel cuore della notte) in diversi centri d’accoglienza, dalla Calabria a Roma.
Il capitano mi chiede perché non parlo più. Si avvicina ancora la nave? È ancora in vista? Di che nazione è?
−Spagnola− rispondo.
Il vascello procede verso di noi, si, ma oscillando, e piegandosi sulle onde come se al timone non ci fosse nessuno.
Li sento gridare. Sembrano urla di gioia. Loro possono anche sperare. Per noi, qualunque cosa accada, non cambierà niente
Il primo di noi fu il cambusiere. Iniziò a grattarsi un occhio di mattina. Disse che era colpa del vento, ma quella notte era cieco. Pochi giorni dopo non vedeva più metà dell'equipaggio.
La nave si fa abbastanza vicina da leggere il nome sulla fiancata. "Leon". S'inchina su un fianco, sembra venirci addosso. Il rumore di legno che scricchiola fa ammutolire gli altri, poi la Leon torna dritta. Però rimane ferma, e il ponte è vuoto.
L’uomo incatenato con me mormora che qualcuno è venuto a salvarci. Gli rispondo che sbaglia. È successo qualcosa sì, forse un'altra nave, ma non cambierà niente. Io lo so. Anche l'altra nave è maledetta.
Il dottore applicava impacchi. Erbe bollite, aceto. Poi anche il dottore divenne cieco. Il capitano ordinò ai pochi di noi rimasti di cercare più vento, di viaggiare più veloci. Come se potessimo scappare. Anche lui divenne cieco. Eravamo in cinque. In quattro, in tre. Due. Da giorni sono rimasto solo io. Ho guidato le mani dei miei compagni alle funi, alle vele, perché potessero aiutarmi. Ho condotto la nave da solo. Adesso sembra arrivata una speranza. Ma il ponte della Leon è vuoto, e spira un vento maligno.
Il crudele spettacolo del trattenimento arbitrario di centinaia di persone all’interno di navi da parte del Governo italiano era stato già messo in scena negli anni precedenti. I casi più noti, nonostante la calura estiva, riguardano la nave Diciotti che nell’agosto del 2018, dopo aver soccorso decine di persone nel Mediterraneo, si vede negato lo sbarco dei 177 migranti presenti a bordo, che avverrà solo dopo 6 giorni di trattative nel porto di Catania. Nel luglio del 2019, la storia si ripete, 135 persone vengono trattenute a bordo della nave Gregoretti e solo dopo 5 giorni potranno toccare terra nel porto di Augusta.
Per un attimo tutto ammutolisce. In questa nave prigione le voci del mondo diventano confuse, un tessuto sfilacciato, ma si possono udire. Ora non più. Non sento lo scricchiolare del legno, i canti dei miei compagni, il fischio dei gabbiani, il crepitare dal sole. Tutto è muto.
Le chiglie si sfiorano. Scavalco e vado dall'altra parte. La nave oscilla. Un nugolo di mosche ronza attorno a resti di cibo marcio poggiato su un barile. La vela dell'albero maestro, squarciata, sbatte contro il cielo. Si spalanca la porta del castello di poppa. Da quel pozzo d'oscurità caracolla fuori quel che resta di un uomo. Ha le vesti lacere, le ossa che bucano la pelle, i capelli radi. Quando sono a pochi passi da lui ne sento il respiro, uno spiffero bollente fra i denti.
Solleva il capo. Gli occhi bianchi sono circondate di grumi giallastri e sangue. Arretro, ma lui mi afferra la mano.
−Siete venuti a salvarci? − balbetta.
Il mondo ho ricominciato a parlare. Ma da quaggiù sento solo sussurri maligni. L’uomo incatenato a me chiede quando ci porteranno di sopra, quando potremo morire. Le sue parole diventano un pianto di sangue. Dice che le nostre anime non torneranno mai a casa.
Il capitano beve e bestemmia. Il pensiero di tutti i soldi che perderà portando a destinazione questo carico marcio gli brucia.
Un raggio di sole mi ha ferito gli occhi. Non l'ho detto a nessuno. Ieri ho sollevato la palpebra e ho intravisto la sagoma di mio fratello disteso ai miei piedi. Una macchia scura nel bianco.
Abbiamo trovato un vento nuovo. Ora la nave viaggia veloce.
Oggi quella macchia è diventata un corpo. I miei occhi vedono di nuovo.
Dopo un incendio scoppiato nel centro di Lampedusa, centinaia di persone trattenute al suo interno vengono fatte salire su un autobus, trasferite al porto di Palermo ed infine, con i polsi legati da fascette di plastica, rinchiuse su tre grandi navi lì ormeggiate, Moby Fantasy, Moby Vincent e l’Audacia. Questo accadeva nel settembre 2011, l’anno della cosiddetta emergenza Nord Africa.
All’epoca sono state numerose le testimonianze in cui questi prigionieri hanno raccontato le condizioni di totale privazione della libertà a cui sono stati costretti. Inibita qualsiasi libertà di movimento anche all’interno delle navi, privati della possibilità di comunicare con l’esterno, sottoposti a continua sorveglianza, in un luogo privo di determinazione giuridica e senza la notifica di alcun provvedimento a carico. Dopo essere stati trattenuti per più di tre settimane in queste condizioni sono stati tutti deportati in Tunisia.
Scendo nella stiva. Il capitano ha ordinato di controllare quanti schiavi sono morti, e di buttare a mare i cadaveri. Scavalco corpi mentre gli altri marinai formano una catena e trascinano fuori i cadaveri trasformandoli in un tonfo fra le onde. Afferro le braccia di un morto. Non sono flosce come le altre. Fanno resistenza. Spalanca gli occhi. Mi ha guarda. Mi guarda e mi vede. Non sono più solo su questa nave.
Aprono le mie catene e mi alzano di forza. L’uomo che incatenato a me mi afferra le caviglie.
−Porterò anche la tua anima− gli sussurro. Mi lascia andare. Quando arrivo sul ponte gli occhi mi prendono fuoco. Piango. Con dolore alzo le palpebre e scorro gli occhi sul cerchio di uomini che mi circonda. Tutti ciechi come tronchi d'albero. Solo, un uomo rimanda il mio sguardo. Ha una cicatrice sul volto, la barba rada, gli occhi slavati. Un fucile a tracolla. Tiene per mano un altro uomo, alto e calvo. Lo guida di fronte a me.
−Da quanto vedi? − chiede il cieco. Scuoto la testa. L'uomo che solleva il primo dito, il secondo. Quando alza il terzo gli dico di fermarsi.
−Tre− dico al dottore. Lo schiavo mi rivolge uno sguardo d'intesa.
−Hai ancora dolore? Lacrime? −
Guardo l'uomo bianco. Si picchia le tempie, storce la faccia, striscia un dito sulla guancia. Annuisco.
−Sì− dico al dottore.
−Ce ne sono altri come te? − chiede ancora lui.
Il marinaio indica prima me, poi in basso, dove stanno i miei fratelli.
Scuoto la testa.
−No− dico al dottore. Lui confabula un po' col capitano, che si alza e si avvicina. Si fa guidare fino ad afferrare il braccio dello schiavo.
−Incatenalo sul ponte – dice − così lo terremo d'occhio−
È raggiante. La speranza lo rinvigorisce. Lo schiavo mi guarda. Congiungo le mani unendo i polsi. Ci fissiamo per un attimo in un lembo di personale silenzio.
Mi divincolo dalla stretta e corro verso il mare.
Sta scappando. Il capitano ordina di sparare. Imbraccio il fucile. Sparo.
Un'esplosione alle mie spalle. Non vorrei, ma mi fermo. Le gambe non vanno. Mi volto. L'uomo bianco mi guarda. Gli altri si muovono come insetti da un formicaio calpestato. L'uomo bianco punta il fucile in alto.
Sparo. Al cielo.
Riprendo a correre. Arrivo al parapetto. Il fragore delle onde copre le voci alle mie spalle. Chiudo gli occhi. Una breve preghiera. Salto.
In qualche modo il capitano mi raggiunge.
−L' ho mancato− dico. Mi sporgo dal parapetto. È sparito.
La luce svanisce, freddo e oscurità mi schiacciano. L’anima esce dalla bocca, dal naso. Dagli occhi.
−Tranquillo− mi sussurra – troverò la strada.
4
Ago
Il “disgustoso” romanzo epistolare è Mathilda, scritto da Mary Shelley fra il 4 agosto e il 12 settembre del 1819. Vi si narra di un amore incestuoso tra un padre (di cui non conosciamo mai il nome) e la figlia Mathilda, anzi Matilda, perché è questa la variante poi utilizzata da Mary stessa nel libro e con cui l’opera è ormai intitolata e non solo nell’edizione italiana.
La trama mostra molte piste autobiografiche contenute nel romanzo ma si spinge ben oltre. Il tema dell’incesto tra fratello e sorella era un tema caro ai poeti ribelli della generazione di Mary Shelley, una sorta di passaggio obbligato per sovvertire ogni ordine sociale. Ma il tema dell’incesto padre/figlia, presente in alcuni miti e tragedie, adombrato nelle fiabe, è qualcosa di ancora più perturbante. Il marito Percy, in quell’estate del 1819, sta ultimando la tragedia I Cenci, una vicenda realmente avvenuta e da lui scoperta a Roma, durante il tragico soggiorno in cui hanno perduto il figlio che per volere di Percy è stato sepolto a Roma nel cimitero degli inglesi accanto all’amico poeta John Keats.
Beatrice Cenci nel 1600 era stata giustiziata per aver ucciso il padre che l’aveva violentata: Percy è completamente preso dalla scrittura in cui riversa il proprio disgusto per una civiltà dove stupro e prevaricazione sono più che tollerati, in nome della legge del padre, del papa e dei magistrati. Sappiamo che Mary conosceva la Mirra di Alfieri, tragedia che aveva pensato di tradurre, in cui si mette in scena la storia della giovane condannata da Venere ad amare il padre per colpa della madre che ha oltraggiato la bellezza della dea.
È in questo clima che la giovane scrittrice prova a riprendere la penna in mano, scrivere l’ha sempre aiutata, lo ribadisce più volte nel suo diario. Pensa sempre alla madre, immagina di scrivere un testo a partire da The Fields of Fancy, un'opera inconclusa di Mary Wollstonecraft in cui un vecchio spiega a una bambina come funziona la nostra psiche. Poi comincia a scrivere Mathilda e il tema sarà l’incesto.
Fermiamoci sulla trama. La giovane Matilda, isolata in un luogo lontano e in punto di morte, scrive una lettera al suo amico poeta Woodville, per rivelargli il segreto che l’ha spinta a nascondersi al mondo, dopo avere finto un suicidio. Nella lettera Matilda racconta la morte della madre Diana dopo il parto e l’abbandono del padre, che la lascia a una sorellastra, disperato e incapace di allevarla senza l’amatissima moglie. Quando ha 16 anni, il padre ritorna per prendersi finalmente cura di lei, è amorevole, la fa studiare, discutono insieme di molti argomenti. La felicità della ragazza è totale, trascorreranno insieme il resto della loro vita.. Improvvisamente però lui la ignora e di nuovo la respinge. Perché? «Nella mia follia osai dire a me stesso: Diana morì nel darle la vita; lo spirito di sua madre è stato trasferito nel suo corpo, e lei dovrebbe essere come Diana per me». Il padre si è innamorato di lei e glielo confessa prima di uccidersi. Ora Matilda si sente colpevole, a differenza di quando inconsapevole e senza malizia aveva detto: «Un amante, e per quanta follia ci fosse in questo pensiero, egli era tuttavia il mio amante».
Nella seconda parte della lettera Matilda inscena il suicidio per potersi nascondere da tutti. Dopo due anni di solitudine, incontra un giovane poeta, Woodville, l’unico con cui riesce ad avere una relazione dopo il padre. Ma neppure lui può strapparla alla morte: Matilda, malata di tisi, sceglie di restare sola nel suo gelido eremo e muore poco dopo aver concluso la lettera a Woodville.
Quando Mary Shelley scrive Matilda è annichilita dal dolore per la perdita del figlio, ma la morte l’ha colpita fin dal giorno della sua nascita il 30 agosto 1797: pochi giorni dopo, per le conseguenze del parto, se ne va la madre, Mary Wollstonecraft, scrittrice, giornalista, una pensatrice che ha segnato la storia con il suo saggio del 1792 Vindication of the Rights of Woman. Una madre adorata, anche dal padre William, e della cui morte Mary si reputa responsabile, proprio come Matilda nel romanzo. Si considera forse anche l’hideous progeny, l’orrenda progenie, come lei stessa ha definito il mostro creato in laboratorio dal dottor Frankenstein che alla fine lo ucciderà. È una figlia mostruosa? Una madre di proteggere i propri figli dalla morte?
I fantasmi la tormentano. Da anni vive con il giovane poeta Percy B. Shelley, di cui è molto innamorata, anche se in quel periodo di estrema fragilità si sente estranea persino a lui, lo giudica responsabile della morte dei loro tre figli (due femmine, prima di William), perduti in diverse città nel loro continuo peregrinare. Mary, che è incinta dell’unico figlio che le resterà sempre accanto, Percy Florence, è lontana, immersa nei propri fantasmi di morte. Percy, sensibile, a sua volta tormentato da molte angosce che cura col laudano (a base di oppio e alcol) le dedica una poesia:
«Mia carissima Mary, dove sei andata perché mi hai lasciato solo in questo triste mondo? La tua forma è qui, è vero, bellissima Ma tu sei fuggita – giù per la oscura strada che porta alla cupa dimora del Dolore».
Lei stessa, pochi mesi dopo, scrive al caro amico Leigh Hunt: «Penso di essere morta il 7 giugno scorso».
Eppure, a differenza di Woodville che non riesce a strappare Matilda al suo eremo e alla morte, Shelley nel 1814 l’ha fatta innamorare e convinta a seguirlo in Italia. E Mary, allora sedicenne, è fuggita con lui, già espulso giovanotto da Oxford per ateismo spavaldamente dichiarato in un pamphlet. La fuga è uno scandalo, il pur liberale genitore William Godwin la caccia di casa: Shelley è infatti già sposato con Harriett Westbrook. Ama la moglie? Forse. Di sicuro ama l’impresa libertaria con cui l’ha salvata da un padre tirannico sposandola. Baronetto e poeta rivoluzionario dalla parte degli operai luddisti in rivolta in quegli anni a Londra e poi sempre degli oppressi, crede nel libero amore e, secondo molti suoi biografi, avrebbe proposto alle due donne di vivere tutti insieme, bambine e bambini compresi. Mary pare fosse abbastanza disponibile, sua madre è stata una ribelle, una libera pensatrice che prima di lei aveva già avuto un’altra figlia, Fanny, con un avventuriero americano con il quale non si è neppure sposata. Al contrario la moglie di Percy, Harriet, di libero amore non ne vuole sapere. Si uccide nel 1816, dopo la nascita del loro secondo figlio, nato due anni dopo la fuga di Percy con Mary.
Dopo la tragica fine di Harriett, il 30 dicembre di quello stesso 1816 Mary e Percy possono sposarsi e lo fanno in fretta e furia. Non hanno mai smesso di viaggiare con il loro seguito di bambinaie, amici, bauli, libri in diverse lingue: entrambi leggono in francese, latino, italiano e poi in greco. Non hanno smesso di avere bambini, di leggere insieme e di scrivere diari, tragedie, poesie e romanzi, di fare politica con l’amico lord Byron e con i diversi patrioti che incontrano nelle diverse città d’Europa, soprattutto in Italia, dove si preparano i moti risorgimentali contro l’invasore straniero.
Nessuno dei loro figli in quel 1819 è sopravvissuto. Nel 1815 la prima figlia, nata prematura, è morta dopo pochi giorni, lasciando straziata la giovanissima madre che la trova fredda nella culla e prova a riscaldarla, ad attaccarsela al seno. Scriverà pagine indimenticabili nel proprio diario su quella piccola a cui non hanno ancora dato un nome. Neppure un anno dopo nasce William e poi Clara. Ma anche la piccola Clara muore di febbre nell’estate del 1818 a Venezia, durante i vorticosi viaggi che l’inquieta coppia continua a compiere.
Ancora morte. Anche la sorellastra Fanny si è uccisa in quel 1816 in cui si è affogata la moglie di Percy. In un alberghetto lontano da Londra dove era scappata, quando Mary se n’era andata di casa. Fanny non ha lasciato scritto nulla, aveva indossato una camicia con le iniziali della madre, M. W., Mary Wollstonecraft ed è finita in una fossa comune. E né il patrigno Godwin né Shelley erano andati a riconoscerla ufficialmente perché un nuovo scandalo non era sopportabile neppure per due intellettuali ribelli come loro.
Il 12 novembre 1819 nasce a Firenze il loro figlio Percy Florence, che resterà accanto alla madre fino alla morte di lei nel 1851. Due mesi dopo gli Shelley si trasferiscono a Pisa, “il paradiso degli esuli”, scrive Percy in una lettera. Esuli politici inglesi che frequentano i patrioti italiani, gli scrittori, gli scienziati ospiti in città. Qui Mary trova un’amica, lady Margareth Mountcastle, di cui sua madre Mary Wollstonecraft è stata istitutrice e che è fuggita dall’Irlanda a Pisa con George W. Tighe, abbandonando marito e otto figli. A Pisa lady Mountcastle ha fondato l’Accademia dei Lunatici nella quale passano tra gli altri Giuseppe Giusti, Francesco Guerrazzi, Giacomo Leopardi.
Mary si è rasserenata, il bambino sembra robusto, lei comincia a lavorare al nuovo libro. Sarà il romanzo storico Valperga. Vita e avventure di Castruccio degli Antelminelli principe di Lucca. Studia il Medioevo, i Guelfi e i Ghibellini, le Signorie e i liberi Comuni, i roghi degli eretici. E inserisce nel romanzo un’eresia femminile duecentesca, quella di Guglielma e della sua discepola Maifreda, mentre Eutanasia, è forse la prima eroina pacifista della letteratura, protagonista della storia quanto Castruccio Castracani. E anche questa è una innovazione.
Bibliografia
Shelley Mary, Matilda, traduzione di Mirella Billi, Marsilio Editori, 2005
Shelley Mary, Frankenstein ovvero il moderno Prometeo, introduzione di Nadia Fusini, traduzione di Luca Lamberti, Einaudi 2011
Shelley Percy B., Opere, a cura di Francesco Rognoni, Einaudi Gallimard 1995
Sanguineti Carla, Come un incantesimo. Mary e Percy Shelley nel Golfo dei Poeti, Kappa Wu 2011
Anna Maria Crispino e Silvia Neonato (a cura di), Lady Frankenstein e l’orrenda progenie, Iacobelli 2018
Angelini Sut Adriano, Mary Shelley e la maledizione del lago, Giulio Perrone 2017
Feldman Paula R. and Scott-Kilvert Diana (a cura di), The Journal of Mary Shelley 1814-1844, 2 vol., Clarendon Press 1987
Godwin William, Mary Wollstonecraft, traduzione di Simonetta Bellavista, Castelvecchi 2014
Percy lo ha voluto seppellire accanto al poeta amico John Keats, dove ancora riposa al cimitero acatollico.
19
nov
Nel 2072 semplicemente erano finite le parole. Tutte insieme, tutte nello stesso momento. Una forma di umanità muta, una Babele al contrario. Nel giro di un anno sparì la civiltà così come l’avevano conosciuta, ma se ne dimenticarono. Perché anche la memoria, essendo un insieme di parole e di immagini, non era più dicibile. Ognuno aveva la sua. Sparì il colore del verde, sparì il concetto di tutto, rimasero dei corpi mischiati e agitati. Corpi convulsi. Finì il lavoro e finirono le infrastrutture. Nessuno aveva immaginato una forma di rivoluzione così veloce, senza sangue, senza sconvolgimento di un ordine, senza nulla. Una rivoluzione senza obiettivo. Un punto di fuga senza la fuga.
Cosa accadde a quasi dieci miliardi di corpi in un anno senza parola e senza memoria lo possiamo solo immaginare. L’immaginazione è una dote di cui forse si dimenticarono, ma è più probabile che la chiusero dentro un’aspettativa perenne, una preparazione perpetua a una festa, che non arrivò, ma che li mise in pace gli uni con gli altri.
A raccogliere, cucinare, cucire, vestirsi, bagnarsi nei fiumi, far marcire le città.
La tecnologia aveva reso possibile che le parole scritte fossero ancora lì, sugli schermi, ma nessuno sapeva più come decifrarli. Erano segni e suoni puri come quelli delle orche.
Mai il mondo era apparso allo sguardo così ampio e indicibile, quieto e oscuro. Irragionevole.
Rosa guidò una spedizione a gesti e, alla fine della spedizione, non c’era più, ma avendo già visto, non si rattristò neanche un momento della sua morte – provò piuttosto una forma di compassione per chi ne avrebbe sofferto – e si ricordò di un sogno incredibile per quell’epoca. Incredibile, ma molto vivido. Non ricordò il nome del poeta che le era apparso, perché anche i nomi erano evaporati, ma ricordò che ragionava di morte e di suicidio, di pena e di impossibilità di stare al mondo se non per l’affetto degli altri. Mentre il sasso le fracassava lo sterno, Rosa pensò una lettera dell’alfabeto, una L, e morì sapendo che l’umanità avrebbe ripreso a parlare (e a uccidersi) con la scoperta finale della spedizione.
Vicino al foglio trovarono uno scrigno di legno e dentro c’erano degli oggetti in plastica, quelli che si facevano intoro al 2020 con le stampanti 3D. Trovarono:
una siepe
una foglia
una teca con dentro della sabbia di mare
una nave modellizzata tutta rotta, come se fosse appena naufragata
una cassetta audio in pellicola
un registratore
Poterono così decifrare un alfabeto antico. Si inventarono una data – 1819 – e un nome. Il nome del nonno di Rosa, perché ancora non era diventata usanza attribuire la scrittura a una giovane donna – Giacomo Leopardi.
Quello che intuirono fu l’infinito.
Sempre caro mi fu quest’ermo colle, E questa siepe, che da tanta parte Dell’ultimo orizzonte il guardo esclude. Ma sedendo e mirando, interminati Spazi di là da quella, e sovrumani Silenzi, e profondissima quiete Io nel pensier mi fingo; ove per poco Il cor non si spaura. E come il vento Odo stormir tra queste piante, io quello Infinito silenzio a questa voce Vo comparando: e mi sovvien l’eterno, E le morte stagioni, e la presente E viva, e il suon di lei. Così tra questa Immensità s’annega il pensier mio: E il naufragar m’è dolce in questo mare.
le due illustrazioni sono di Sara Petraglia
22
nov
Una regione enorme della mia immaginazione è occupata da un bric à brac perlopiù vittoriano in cui convivono David Copperfield e Tess dei D’Urbervile, Jane Eyre e la Catherine strappacuore che ama Heathcliff, la pazza in soffitta e le sorelle Bennett con la loro insopportabile madre. È come se fisicamente esistesse, dentro di me, questo paese che mi piace visitare, e la cosa buffa è che porta un nome, un nome preciso, che mi è rimasto conficcato in testa quando avevo forse dieci o undici anni, e sul comodino di mio papà stazionava, fisso, un libro il cui titolo era il nome misterioso. Middlemarch.
Middlemarch è il nome di un paese, ma ovviamente, per il senso delle parole che lo compongono, e che malgrado la mia pronuncia zoppicante sapevo già decifrare in inglese, situa il luogo in un tempo, il tempo della metà di marzo, che nella mia Inghilterra ideale, nella mia Inghilterra mai vista, è la stagione costante – quel momento dell’anno in cui è ancora inverno ma la terra scura di pioggia e umido si risveglia, poco a poco, nel verde commovente dei germogli. E le sere sono fredde e brumose, la primavera si annuncia lenta in tramonti incendiati di rossi e di rosa; e il buio ancora cala presto, con una grazia nuova, ragazzina.
Ecco, Middlemarch per me è un tempo e un luogo, il luogo dei destini incrociati di persone immaginate da altre e altri, che io amo. Ma è un luogo immaginario, un luogo letterario, anche la Middlemarch del romanzo che iniziai a leggere per caso, un pomeriggio che ero a casa da sola, e avevo trovato il libro lì sul comodino. Ricordo che cominciai a leggerlo così com’ero, in piedi, nella camera dei miei genitori. Mi era già successo con altri libri, con Middlemarch però, che ha più di 800 pagine, quella lettura rubata non bastò certo a finirlo – bastò a malapena per infilare un piede nel villaggio immaginato da George Eliot nel cuore dell’Inghilterra rurale. Bastò perché mi insediassi, come una passante un po’ sfinita dal cammino, su un ceppo alle porte della cittadina, a guardar sfilare gli abitanti. Dopo quell’inizio folgorante, mi ci volle qualche anno perché riprendessi, e infine portassi a compimento la lettura; e nel frattempo l’adolescenza che quando avevo cominciato bussava appena, timidamente, alle porte del mio sentire, si era impadronita del mio corpo e dei miei pensieri, scatenando turbini di insicurezze e di dubbi. E la bambina che ero stata, che tranquilla e felice come una Pasqua marzolina si immaginava immense scrivanie ingombre di carte, si immaginava le ore a scrivere e a creare mondi nuovi e familiari – tutti, con frequenza piuttosto sospetta, attraversati dalle brume ondivaghe di brughiere mai viste – si immaginava un’esistenza felicemente creativa e feconda senza minimamente sospettare l’attrito della realtà, le questioni noiose di soldi e di pretese, quella bambina non esisteva più; al suo posto era sorta una puledra sgraziata e inquieta, che scalciava nella mia testa e nel mio cuore, e rifiutava le fantasticherie infantili per la paura di poterci credere ancora.
Fu una fortuna, allora, conoscere George Eliot. Riprendere Middlemarch, tornare a insediarmi al centro di quell’intreccio di mondanità rurali; soprattutto, fu una fortuna imbattermi nel mistero del nome, che inizialmente, all’epoca del primo incontro con il poderoso volume, mi era sembrato un nome come tanti, il nome normalissimo di un tale signor George che immaginavo dotato dei favoriti regolamentari, di una tuba per le uscite eleganti, di panciotti e redingote e altri capi di abbigliamento che ricorrevano nel mio immaginario mondo ottocentesco, senza per questo aver mai conquistato una nozione accurata della loro foggia e utilità – ma la mia immaginazione è allegra e approssimativa, non ha bisogno di precisione, anzi, ho scoperto col tempo che la precisione la mortifica.
Questo tale George Eliot condivideva il cognome con un poeta che all’epoca mi era noto più che altro per aver scritto una cosa che trovavo molto veritiera a proposito dei gatti, ovvero che ognuno di loro ha un suo nome segreto e nascosto, in grado di svelarne la natura più profonda – osservazione valida anche a proposito di certe persone, aggiungevo io, convinta nella mia testa che il mio vero nome dovesse essere un altro, non Ilaria, con cui non riuscivo a far pace perché la I iniziale mi infastidiva quando veniva preceduta da una “d” eufonica nei biglietti d’auguri e nelle parole di qualche insegnante un po’ all’antica, dal che si evince la pedanteria grammaticale che mi ha sempre contraddistinta e da cui non riesco a liberarmi, anche se nel tempo ho fatto pace col mio nome.
Insomma, malgrado la mia ossessione onomastica, già ben viva all’epoca del primo incontro con George Eliot, non sospettai nemmeno per un attimo che quel George potesse occultare dell’altro; che il filo che legava il nome sulla copertina del libro all’altro Eliot, il T.S. poeta che aveva intuito segrete verità onomastiche, fosse tanto resistente da tessere una sua trama anche dietro un nome così apparentemente normale.
Ma quando, al momento della seconda lettura, adolescente riottosa e piena di ombre, andai a cercare notizie su questo fantomatico George Eliot, nell’enciclopedia che nel frattempo mi ero fatta regalare (avevo allora, come oggi, una fissazione per i dizionari, i lessici, persino per gli elenchi del telefono; ed erano i tempi in cui, anche se internet esisteva da un pezzo, bisognava, per collegarsi, staccare il telefono fisso di casa, operazione troppo macchinosa per la mia già radicata accidia), quale non fu la mia sorpresa nel dover strappar via dall’immagine che mi ero costruita tutto quanto: favoriti, redingote, marsina. Nell’apprendere che si chiamava in realtà Marian Evans e che dietro quello pseudonimo maschile si era nascosta una donna che aveva fatto quello che nemmeno nei miei sogni più sfrenati pensavo fosse possibile a una donna – scrivere con successo, studiare (fra l’altro, Marian Evans studiò la filosofia e si occupò in particolare di Spinoza, di cui tradusse l’Etica, il libro su cui di lì a pochi anni avrei passato molte notti insonni, lavorando alla tesi, anzi alle tesi, perché pure il dottorato avrei dedicato a quelle pagine petrose), avere un lungo amore con un uomo già sposato, ma in un matrimonio aperto (sorprendente la disinvoltura dei costumi vittoriani, a patto di salvare le apparenze paiono disposti a tutto!), trattare come suoi i figli di lui (fra cui il bambino che si ammalò di tisi interrompendo la stesura di Middlemarch e spingendola a riscrivere il romanzo daccapo, e a cambiare tutto l’impianto ribaltandolo); sfidare i benpensanti di punto in bianco, decidere di non salvar più uno straccio d’apparenza, scandalizzarli ammettendo pubblicamente la relazione, affrontare l’ostracismo della buona società come niente fosse. E poi, anni dopo, vedova dell’amante che considerava suo marito, sposarsi con un altro uomo, di vent’anni più giovane, infischiandosene di tutto e tutti. E nel frattempo dirigere riviste letterarie, essere straordinariamente brutta e soffrirne un po’ ma, come scrisse Henry James, sprigionare una bellezza misteriosa visibile solo a certi occhi – quel fenomeno che rispetto agli uomini si chiama fascino e che sembra precluso alle donne non canonicamente belle, e invece, chiaramente, non lo è.
Uno dei suoi testi più famosi, il saggio sugli sciocchi romanzi scritti da signore, Silly Novels by Lady Novelists, è una critica sagace e beffarda del conformismo sdolcinato e convenzionale, delle melensaggini, della stupidità. È, a dispetto delle apparenze, un testo profondamente femminista – la rivendicazione di una libertà che a volte si può acquistare al prezzo di uno pseudonimo, perché arrivi a distanza di quasi duecento anni il raggio che ne emana, potente e luminoso, a rischiarare persino l’adolescenza di una ragazzina convenzionale che si sente sciocca e lo è, ma intravede in quella libertà sprezzante delle consuetudini la sola via per permettere di esistere ai mondi invisibili situati in fantasmatiche brughiere, in cui i rapporti di forza, gli equilibri e le contraddizioni si svelano, come solo succede nei grandi romanzi, più veri che nel vero.